di Paolo Galbiati, membro di comitato ErreDiPi e docente di Economia e Diritto al Liceo di Bellinzona
Ma perché è importante tenerlo ben presente?
Perché è quello che in due anni perderemo in termini di salario, noi lavoratrici e lavoratori del pubblico e del para-pubblico, e lo perderemo per tutta la carriera, fino alla pensione, se le cose andranno come prevede e propone il governo.
Non dobbiamo dunque limitare la nostra attenzione solo alla proposta del governo per il 2025, e cioè di riconoscerci la metà di ciò a cui avremmo diritto: lo 0,5% su un totale di circa l’1% del rincaro che erode i nostri salari. Dobbiamo ricordarci che l’anno scorso la compensazione del rincaro ci è stata negata e i nostri salari sono stati erosi dall’aumento dell’1.4% del costo della vita. Ricordando, a questo proposito, che in questa percentuale non sono inclusi gli aumenti dei premi di cassa malati.
Oggi siamo qui per chiedere il mantenimento del potere d’acquisto dei nostri salari, che sarà tale solo recuperando quanto non concesso lo scorso anno e quanto mancherebbe quest’anno se il governo insistesse con la sua proposta. Il 2% di adeguamento degli stipendi rappresenta quindi una rivendicazione legittima di un sacrosanto diritto: che il potere d’acquisto dei nostri salari non diminuisca. Niente di più, niente di meno.
Questo cantone sta vivendo un drammatico declino, a causa di una spirale nella quale siamo entrati, che vede quale principale causa i bassi salari e di conseguenza pensioni misere. Salari in calo significa reddito in calo, PIL in calo, benessere in calo. Tanto che i nostri giovani fuggono oltre Gottardo o all’estero, come non accadeva più dai tempi dell’emigrazione ticinese verso Stati Uniti, Argentina e Australia.
Sento già il commento alle mie parole: “Non lamentatevi voi, che gli altri – nel privato – stanno peggio…”.
Ebbene, quando i salari della classe media calano, calano per tutti. Se calano quelli del settore pubblico, viene meno l’argine che, sul mercato del lavoro, il datore di lavoro Stato pone ai datori di lavoro privati, e di conseguenza anche i salari privati calano.
Tant’è che oggi le lavoratrici e i lavoratori del settore privato chiedono adeguamenti salariali del 4.5/5%: una rivendicazione ben più consistente rispetto a quella del settore pubblico, che noi del pubblico sosteniamo incondizionatamente.
Da oltre 20 anni sono docente, ma prima ancora sono un dipendente dello Stato, fiero di far parte del servizio pubblico, a dispetto di chi ci ritiene strani esseri che si riproducono come conigli e colonizzano gli uffici e le scuole in modo parassitario. Tant’è che si pensa di poter tagliare 20-30% del personale senza che il servizio ne soffra.
Ed ecco una prima perla di ignoranza, condivisa da buona parte della classe politica e imprenditoriale: se interrogassero un paracarro, questi spiegherebbe loro che nel sociale, nel sanitario, nella scuola e in generale nel servizio pubblico l’efficienza del servizio non dipende dal tempo dedicato ad ogni singolo caso trattato, come accade per l’operaio nei confronti dei bulloni alla catena di montaggio. L’efficienza del nostro servizio si misura nella capacità di soddisfare i bisogni delle persone di cui ci prendiamo cura, che siano malati, o alunni, o utenti della strada allo sportello di Camorino. Ma questo non vale solo per le famiglie ticinesi, bensì anche per l’imprenditore straniero che potrebbe decidere di insediare la sua attività in Ticino, oppure per il ricco ereditiero che potrebbe stabilirsi sul nostro territorio. A cosa guarderanno questi per decidere? Alla qualità del servizio pubblico, ossia a quanto e come i dipendenti pubblici si prenderanno cura delle loro pratiche burocratiche, delle loro malattie, della loro sicurezza, dell’educazione dei loro figli, della cura delle loro anziane madri…
Ci sentiamo dire: “ma tutto questo costa troppo!” Ecco la seconda perla di ignoranza. La qualità del servizio pubblico è un costo? In realtà no: è piuttosto un investimento in quello che la scienza economica chiama “capitale sociale” e che costituisce il vero vantaggio competitivo di un paese, il volano per lo sviluppo socioeconomico.
Eppure ci sentiamo ripetere in continuazione che “non ce lo possiamo permettere!” E voilà: la terza perla di ignoranza è servita! Facciamo così: quando in futuro sentiremo ancora qualcuno formulare una frase ponendo come premessa la “delicata situazione delle finanze cantonali”, mandiamolo a sciacquarsi la bocca con l’aceto!
Perché questa affermazione è falsa, anzi, doppiamente falsa. Falsa se ci paragoniamo con qualsiasi stato o staterello dell’Occidente, e persino con la Confederazione. Il peso del nostro debito pubblico è un decimo rispetto alla mediana dei paesi ricchi, e la metà di quello del paese meno indebitato fra quelli ricchi. È come se un lavoratore con un salario di 100'000 chf annui dovesse ritenere “fuori controllo” un debito di 8-10'000 chf. La maggior parte di noi ha superato il doppio di quel debito anche solo firmando il contratto di leasing…
Ma la falsità riguarda anche l’idea che il debito sia l’obiettivo a cui mirare, mentre invece è l’esatto opposto: il debito è lo strumento più potente da utilizzare, per fare investimenti che rilancino i redditi e il potere d’acquisto della nostra popolazione.
Il debito in tedesco si dice Schuld, che si traduce anche con colpa. Ma il debito non è una colpa. La colpa semmai è quello di farlo diventare uno spauracchio per giustificare la lotta al debito sacrificando il potere d’acquisto. La lotta al debito è una pratica feticista, non una politica economica. La colpa, dunque, è considerare il debito una colpa, anziché impiegarlo come strumento di politica economica per rafforzare i salari.
E invece, tutti insieme appassionatamente, i politici di maggioranza tagliano allegramente il ramo su cui è seduto il nostro paese, ossia i salari, cioè la principale fonte di reddito e quindi del PIL del Cantone. Lasciano che l’inflazione eroda i salari pubblici, legittimando così la stessa operazione anche nell’ambito dei salari privati. E riducono tutti quei servizi destinati alla popolazione che, dovendo essere pagati individualmente, erodono i salari, pubblici e privati.
In conclusione: questa manifestazione non può esaurirsi qui. Al contrario: deve essere il punto di partenza per continuare la nostra mobilitazione.
Sappiamo che, da sola, non può bastare, sappiamo che per smuovere governo e parlamento, e per liberarci dall’ossessione del debito e dalla conseguente logica dei tagli, che affossa sempre più salari e pensioni, dobbiamo consolidare la nostra mobilitazione, essere in grado di dare continuità alla nostra azione e, soprattutto, portare la mobilitazione sui luoghi di lavoro, durante il tempo di lavoro.
È questo l’insegnamento che dobbiamo trarre dalla vittoria sulle pensioni: che si può vincere! Due anni di mobilitazioni, culminate anche in giornate d’azione sui luoghi di lavoro, che ci hanno permesso di scongiurare una ulteriore diminuzione delle rendite del 20%, dopo quella già subita nel 2012, poiché allora non ci siamo mobilitati e non abbiamo combattuto.
Sì può vincere! Lo si può fare, agendo uniti e compatti, con determinazione e pazienza, con obiettivi chiari, che partano da un rifiuto netto quando si tenta di tagliare salari e pensioni, pubbliche e private.
È in questa direzione che continuerà il lavoro di ErreDipi al quale invitiamo tutte e tutti voi a partecipare.